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Responsabilità medica: onere della prova – il criterio del “più probabile che non”.

Chiamata a pronunciarsi sul ricorso dei congiunti di una signora deceduta per un “violento shock emorragico” in occasione di un intervento di toracotomia, avverso ad una sentenza della Corte d’Appello che aveva ritenuto insussistente la prova del nesso di causa tra la condotta dei sanitari e il decesso della paziente, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13872/2020, ha definito la ripartizione dell’onere probatorio nelle fattispecie di responsabilità medica riaffermando come in tale ambito vada applicata la regola della preponderanza dell’evidenza.

Tale regola è connotata dalla combinazione di due criteri: il criterio del più probabile che non, secondo cui il giudice, in base alle prove allegate, deve optare per l’ipotesi che è dotata di un “grado di conferma logica superiore all’altra”, ed il criterio della prevalenza relativa, in base al quale il giudice deve prediligere l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili.

La Suprema Corte evidenzia che, nei giudizi risarcitori da responsabilità medica, il creditore-danneggiato deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza o l’aggravamento della patologia o la morte e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), mentre il debitore-danneggiante deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).

La Corte si sofferma, inoltre, sulle peculiarità della responsabilità sanitaria, precisando che, nella responsabilità contrattuale intesa in senso lato, la causalità materiale non è scindibile dall’inadempimento poiché esso corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e, dunque, al danno evento.

Mentre nella responsabilità sanitaria, la causalità materiale «torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della riconducibilità dell’evento alla condotta».

Qui l’interesse primario del creditore corrisponde alla guarigione; l’oggetto della prestazione sanitaria consiste nel diligente svolgimento della prestazione professionale, ossia nel rispetto delle leges artis e, pertanto, «il danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie attinge non l’interesse affidato all’adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto corrispondente al diritto alla salute».

L’eventuale aggravamento delle condizioni del paziente o il suo decesso non dipendono automaticamente dalla violazione delle leges artis in quanto l’evento infausto può avere anche una diversa eziologia.

Per questa ragione, il creditore-danneggiato ha l’onere di allegare e provare la connessione fra la lesione della salute e la condotta del medico.

L’onere di provare il nesso tra la morte del paziente e la condotta dei medici grava, pertanto, sui suoi eredi e, solo una volta assolto tale onere, graverà sul danneggiante (l’ospedale) l’onere di dimostrare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio, è stato determinato da causa ad esso non imputabile.

Sulla scorta di tale assunto, gli Ermellini hanno ritenuto fondata la doglianza dei ricorrenti sulla violazione della regola giuridica relativa al riscontro del nesso di causalità materiale tra la condotta dei medici e l’evento dannoso.

Nello specifico, la decisione impugnata si fondava sull’esito della consulenza tecnica d’ufficio, secondo cui non esistevano elementi che indicassero con certezza un rapporto causale tra l’intervento eseguito ed il decesso.

La Suprema Corte ha censurato tale assunto in quanto basato su un canone probatorio postulante la certezza nella causazione dell’evento, laddove invece il principio applicabile per ricondurre efficienza causale alla condotta del medico sull’evento è quello del “più probabile che non”.

Nel caso trattato, in particolare, viene posta in risalto la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità, ovvero il momento della ricostruzione della “causalità materiale o di fatto”, tema che presenta rilevanti analogie con quella penale di cui agli artt. 40 e 41 c.p..

Nel sistema della responsabilità civile, infatti, la causalità assolve “alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile“.

Tuttavia, nella “ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti”.

Sulle modalità applicative della regola della preponderanza dell’evidenza, la Corte ha quindi affermato, come citato in premessa,  che tale regola è connotata dalla combinazione dei due criteri “del più probabile che non” e “della prevalenza relativa”.

In tal modo si delinea il modello di certezza probabilistica, in cui per ricostruire il nesso causale, occorre che l’ipotesi formulata vada verificata sulla base degli elementi disponibili nel caso concreto.