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Dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’INPS in conseguenza di quel fatto – compensatio lucri cum damno (Cassazione civile, SS.UU., sentenza n° 12567/2018)

La questione su cui sono state chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite riguardava se dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica (il neonato, sano durante la gestazione, aveva patito una grave ipossia cerebrale a causa della ritardata esecuzione del parto cesareo), e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, dovesse sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento erogata al minore dall’INPS.

Sulla questione devoluta all’esame delle Sezioni Unite si registrano orientamenti contrastanti all’interno della giurisprudenza di legittimità.

Un primo indirizzo sostiene la cumulabilità dell’indennità di accompagnamento con il risarcimento del danno (Cass., Sez. 3, 27 luglio 2001, n. 10291).

Questo orientamento si fonda sul rilievo che, affinchè possa applicarsi il principio della compensatio lucri cum damno, è necessario che il vantaggio economico sia arrecato direttamente dal medesimo fatto concreto che ha prodotto il danno, sicchè dall’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno alla persona (patrimoniale o biologico) non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di speciale erogazione assistenziale connessa all’invalidità, tale erogazione basandosi su un titolo diverso rispetto all’atto illecito e non avendo finalità risarcitoria (così, più in generale, Cass., Sez. 3, 18 novembre 1997, n. 11440; Cass., Sez. 3, 30 settembre 2014, n. 20548).

Da tale orientamento si è discostata Cass., Sez. 3, 20 aprile 2016, n. 774, secondo cui nella liquidazione del danno patrimoniale consistente nelle spese che la vittima di lesioni personali deve sostenere per l’assistenza domiciliare, il giudice deve detrarre dal credito risarcitorio il beneficio spettante alla vittima a titolo di indennità di accompagnamento. La conclusione nel senso del non – cumulo è ancorata al rilievo che la percezione di tale emolumento incide sulla natura del danno risarcibile, per il semplice fatto che lo elimina in parte: “qualsiasi emolumento previdenziale o indennitario può incidere sulla liquidazione del danno aquiliano, se la sua erogazione è intesa a sollevare la vittima dallo stato di bisogno derivante dall’illecito”.

La soluzione della specifica questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite coinvolge un tema di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e sollecita una risposta all’interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato.

L’esistenza dell’istituto della compensatio, inteso come regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno, non è controversa nella giurisprudenza della Suprema Corte, trovando il proprio fondamento nella idea del danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso.

Se l’atto dannoso porta, accanto al danno, un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità dei risarcimento: infatti, il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso o condurre a sua volta ad un arricchimento ingiustificato del danneggiato. Questo principio è desumibile dall’art. 1223 cod. civ., il quale stabilisce che il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal danneggiato come il mancato guadagno, in quanto siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. Tale norma implica, in linea logica, che l’accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli tenga anche conto degli eventuali vantaggi collegati all’illecito in applicazione della regola della causalità giuridica. Se così non fosse – se, cioè, nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell’illecito non si considerassero anche le poste positive derivate dal fatto dannoso – il danneggiato ne trarrebbe un ingiusto profitto, oltre i limiti del risarcimento riconosciuto dall’ordinamento giuridico (Cass., Sez. 3, 11 luglio 1978, n. 3507).

In altri termini, il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito: come l’ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento.

Controversi sono piuttosto la portata e l’ambito di operatività della figura, ossia i limiti entro i quali la compensatio può trovare applicazione, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti.

E’ la situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale: si pensi all’assicurazione privata contro i danni, nella quale l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro; si considerino i benefici della sicurezza e dell’assistenza sociale, da quelli legati al rapporto di lavoro (e scaturenti dalla tutela contro gli infortuni e le malattie professionali) a quelli rivolti ad assicurare ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela assistenziale; si pensi, ancora, alle numerose previsioni di legge che contemplano indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata.

La vicenda concreta all’esame delle Sezioni Unite si colloca in quest’ambito.

In essa il duplice rapporto bilaterale è rappresentato, da un lato, dal titolo di responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per la colpa di questo per negligenza al parto, da cui discende l’obbligo di risarcire il danno subito dal minore, consistente, per quanto qui rileva, nelle spese da sostenere per l’assistenza personale vita natural durante; dall’altro, dalla relazione discendente dalla legislazione statale di assistenza sociale, la quale, attraverso l’indennità di accompagnamento erogata dall’Inps, assicura a quel minore vittima di lesioni personali una forma di sostegno e di sussidio anche quando l’invalidità dipenda dalla responsabilità di terzi.

Venendo alla specifica questione oggetto del contrasto, occorre muovere dal rilievo che l’indennità di accompagnamento è riconosciuta dalla L. 11 febbraio 1980, n. 18, a favore di coloro, anche minori di diciotto anni, che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua.

Non v’è dubbio che alla base della previsione legislativa vi è una finalità solidaristica ed assistenziale: con l’erogazione di quell’indennità a chi si trova in condizioni di bisogno, lo Stato corrisponde ad un interesse di tutta la collettività, garantendo l’esistenza delle condizioni necessarie all’effettivo godimento dei diritti fondamentali e realizzando la tutela della persona umana in situazione di difficoltà.

L’afflato solidaristico della comunità che si esprime attraverso la scelta legislativa assistenziale di per sè non esclude il computo di quel beneficio ai fini dell’operazione di corretta stima del danno, ma sempre che ricorra la seguente, duplice condizione.

La prima condizione è che il vantaggio abbia la funzione di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito.

La seconda condizione è che sia legislativamente previsto un meccanismo di riequilibrio idoneo ad assicurare che il responsabile dell’evento dannoso, destinatario della richiesta risarcitoria avanzata dalla vittima, sia collateralmente obbligato a restituire all’amministrazione pubblica l’importo corrispondente al beneficio da questa erogato all’assistito.

Nella specie l’esito di queste verifiche conduce a ritenere applicabile lo scomputo da compensatio, con la sottrazione, dall’ammontare del risarcimento del danno, del valore capitalizzato della indennità di accompagnamento.

Per un verso, infatti, l’indennità di accompagnamento prevista dalla legge ed erogata in favore del danneggiato in conseguenza della minorazione invalidante, è rivolta a fronteggiare e a compensare direttamente – e non mediatamente – il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito: appunto, quello consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore od assistente per le necessità della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto.

Per l’altro verso, la presenza di uno strumento di riequilibrio, idoneo ad escludere che l’autore della condotta dannosa finisca per giovarsi di quella erogazione solidaristica e nello stesso tempo a mantenere la stima del danno entro i binari della ragionevolezza e della proporzionalità, è rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 41.

Secondo questa disposizione, infatti, “le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, sono recuperate fino a concorrenza dell’ammontare di dette prestazioni dall’ente erogatore delle stesse nei riguardi del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni”, mentre è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze (poi emanato in data 19 marzo 2013) la fissazione dei criteri e delle tariffe per la determinazione del valore capitale delle prestazioni erogate agli invalidi civili.

Si tratta di una disposizione che – benchè ancorata, non al modello della successione a titolo particolare nel diritto di credito risarcitorio dell’assistito, ma a quello della previsione, in capo all’ente erogatore, di un diritto di credito autonomo e distinto – è significativa per un duplice ordine di considerazioni.

In primo luogo perchè essa conferma logicamente la funzione compensativa dell’indennità di accompagnamento corrisposta all’invalido civile: una provvidenza che – quando l’invalidità dipenda, come nell’ipotesi di specie, dalla responsabilità del medico e della struttura ospedaliera – ha la specifica finalità di concorrere a rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito o dell’inadempimento e del danno che ne è derivato. In tanto, infatti, si giustifica il “recupero” da parte dell’ente erogatore del valore capitale dell’indennità di accompagnamento nei confronti del terzo autore della condotta dannosa, in quanto l’erogazione assistenziale condivide, con il risarcimento del danno, la finalità di riparare il pregiudizio rappresentato dagli oneri di assistenza.

In secondo luogo perchè quella previsione, componendo le risposte del sistema (dell’obbligo risarcitorio da responsabilità medica, da una parte, e dell’intervento solidaristico dell’assistenza sociale, dall’altra), determina i presupposti non solo per il recupero da parte dell’istituto erogatore, ma anche per una imputazione del beneficio collaterale al risarcimento, non potendo l’autore della condotta colposa essere tenuto a rispondere due volte per lo stesso fatto, una volta (verso il danneggiato) per un importo pari all’intero ammontare del danno risarcibile, l’altra (verso l’amministrazione pubblica) per un importo corrispondente al valore capitalizzato dell’indennità di accompagnamento erogato dall’Inps.

In sostanza, vista dal lato dell’assistito-danneggiato, la percezione del beneficio dell’indennità di accompagnamento, essendo rivolta alla medesima copertura degli oneri di assistenza provocati dal fatto illecito del terzo, assume la valenza di un anticipo, per ragioni di solidarietà sociale ed in presenza della lesione di interessi primari costituzionalmente protetti, della somma che potrà essere ottenuta dal terzo a titolo di risarcimento del danno. La previsione dell’azione L. n. 183 del 2010, ex art. 41, diretta a consentire all’istituto pubblico erogatore di recuperare dal terzo responsabile quanto corrisposto al proprio assistito, impedisce a quest’ultimo di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di beneficio assistenziale con l’intero importo del risarcimento.

A composizione del contrasto di giurisprudenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte con sentenza n. 12567 del 22 maggio 2018 hanno enunciato enunciato il seguente principio di diritto:

“Dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’INPS in conseguenza di quel fatto”.