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Danno da lesione del rapporto parentale – irrilevanza della convivenza e della lontananza ai fini del risarcimento.

La Suprema Corte è stata recentemente chiamata a pronunciarsi in relazione alla riforma della sentenza n. 3223/2015 della Corte d’Appello di Milano che aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni patiti dalla madre e dai fratelli della vittima di un sinistro stradale.

La Corte d’Appello aveva motivato il rigetto ritenendo non provata l’esistenza di un vincolo affettivo al momento del fatto tra gli attori ed il defunto in quanto quest’ultimo, originario della Romania, si era trasferito in Italia dal 1992 e non vi era prova alcuna del permanere dei rapporti con la famiglia d’origine (madre e fratelli rimasti, appunto, in Romania).

Con ordinanza del 15 febbraio 2018 n° 3767 la Corte di Cassazione, dopo aver ribadito, in linea generale, che grava sulla vittima di un fatto illecito dimostrare i fatti costitutivi della sua pretesa, e di conseguenza l’esistenza del danno, ha affermato, tuttavia, che tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, ovvero invocando massime di esperienza e l’id quod plerumque accidit.

Nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza, di norma, connaturale all’essere umano.

Naturalmente si tratterà pur sempre d’una praesumptio hominis, con la conseguente possibilità per il convenuto di dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra la vittima ed il superstite.

La semplice lontananza non è una circostanza di per sé idonea a far presumere l’indifferenza d’una madre alla morte del figlio “lo insegna la psicologia (dalla quale apprendiamo che la lontananza, in determinati casi, rafforza i vincoli affettivi, a misura che la mancanza della persona cara acuisce il desiderio di vederla); lo testimonia la storia (qui gli esempi sono sterminati: dal carteggio di Abelardo ed Eloisa alle lettere dei condannati a morte della Resistenza); e lo attesta sinanche il mito: quello di Penelope ed Ulisse non sarebbe certo sopravvissuto intatto per ventotto secoli, se non rispondesse ad una costante dell’animo umano la conservazione degli affetti più cari anche a distanza di tempo e di spazio”.

Secondo gli Ermellini la Corte d’Appello di Milano ha dunque effettivamente violato sia l’art. 2727 c.c., perché ha negato rilievo ad un fatto di per sé sufficiente a dimostrare l’esistenza del danno (il rapporto di filiazione e di fratellanza), sia le regole sul riparto dell’onere della prova, addossando agli attori l’onere di provare l’assenza di fatti impeditivi della propria pretesa.

La Suprema Corte ha, pertanto, cassato l’impugnata sentenza sulla scorta del seguente principio di diritto: “L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo”.